“I love music, you know?” Contro l’homo oeconomicus

Concerto dei Dinosaur Jr, ore 23:28. Dopo 16 fantastiche canzoni, c’è un brevissimo momento di attesa. Lou Barlow, il bassista, si gira verso quello che probabilmente era uno dei roadie, un signore magro con i capelli lunghi e bianchissimi. Annuisce, gli consegna il basso, un Gibson Grabber giallo, e prende il microfono. Partono la chitarra di J Mascis, la batteria di Murph e il basso e Lou inizia a muovere a tempo la testa immersa nei capelli mentre si avvicina al bordo del palco. Comincia a cantare. Il pezzo è Chunks, brano hardcore punk inizi anni ’80, della band Last Rights. Sotto, l’energia è incontenibile e iniziamo a pogare. Un tizio notoriamente sensibile e gentile stava tirando fuori una potenza viscerale. Per me, la magia della performance si stava compiendo definitivamente e in quel momento la connessione tra pubblico e band era reale, tangibile anche se istintiva e inspiegabile. Tre tizi cinquantenni stavano suonando di nuovo la musica che li aveva uniti per la prima volta quarant’anni prima. C’era qualcosa di sacro in quel momento. È l’ultimo brano del concerto e mi allontano schivando e osservando la folla, pieno di adrenalina e stravolto dalla contentezza.

C’è qualcosa di indefinibile e magnetico che circonda le persone che dedicano la loro vita a seguire una visione, un’arte, un destino. Sono catturate da qualcosa, non possono fare a meno di inseguirla ed esprimerla nel mondo. Ci si dedicano completamente e la loro vita è dominata da quella ricerca. Mi sembra un modo di stare al mondo più aggraziato, più umano, più sincero, più vero rispetto a quello di vendere il proprio tempo per denaro. Certo, non tutti hanno l’opportunità di vivere della propria arte. Poi, svolgere un lavoro è sempre onorevole, anche se lo si fa solo per denaro: il mondo crollerebbe senza gli ingranaggi che ne fanno funzionare il sistema. Ma nonostante tutto, anche se dobbiamo dedicare la maggioranza del nostro tempo ad attività puramente economiche, continuo a credere che per vivere pienamente, per avvicinarsi a un’esistenza più autentica, ognuno di noi deve mettersi alla ricerca. Deve conoscere sé stesso, aprirsi al mondo e lasciare che la curiosità si faccia prendere da qualcosa.

La visione di un essere umano privato di curiosità, di interessi, di piaceri mi avvilisce terribilmente. Cosa rimane? Un essere mostruoso, bestiale e razionale allo stesso tempo, intento soltanto a produrre e consumare. Senza mistero, senza sogni, senza profondità. Persegue soltanto la fredda soddisfazione dei bisogni, minimizzando lo sforzo e massimizzando il godimento materiale. Un uomo del genere è aberrante. Perfino nelle civiltà antiche, per quanto barbariche, possiamo trovare più poesia: almeno loro non distruggevano il pianeta. Siamo forse giunti al punto in cui la società, da elemento di civilizzazione, stia diventando elemento di involuzione? Davvero è possibile che tutta la tecnologia e la conoscenza che abbiamo ci rendano più disumani invece di elevarci? Il problema di fondo è forse legato alla natura della scienza e della tecnica, ben spiegate da Galimberti: se a fondamento di tutto metti la l’efficienza, se il valore massimo è l’economia e l’accumulo, possiamo stupirci della comparsa di umani robot?

Non voglio essere frainteso, sono un liberale e credo nel capitalismo. Ma credo anche nei valori più profondi dell’umanità. Quelli che ci hanno dato i Greci, i poeti, gli artisti, i filosofi. L’umanità è molto più che una serie di ingranaggi in un sistema economico. L’umanità è anche Lou Barlow che, su un palco a 10 mila kilometri da casa, insieme a J e Murph, fa sentire al pubblico le emozioni che lui stesso aveva sentito quando, nella sua cameretta in Massachusetts, ascoltando un album dei Ramones aveva detto per la prima volta “I love music, you know?”.

J, Murph e Lou: i Dinosaur Jr.