Democrazia tra riscatto e scetticismo, raccontata dal presidente Tom Kirkman (Kiefer Sutherland)

Praticamente tutti conoscono House of Cards, la serie americana con protagonista Kevin Spacey. Ma non è di lui che voglio parlarvi, anche se Frank Underwood può sicuramente insegnarci qualcosa sulla brutalità del potere. Voglio raccontare la storia di Tom Kirkman, il presidente interpretato da Kiefer Sutherland in Designated Survivor.

Kirkman è il “sopravvissuto designato” (designated survivor) del gabinetto americano, una figura solitamente di secondo piano, scelta per formalità in occasione del discorso del presidente sullo stato dell’Unione, nell’improbabile caso che tutti gli esponenti delle istituzioni vengano assassinati. La serie esplora esattamente questa eventualità. Il ministro meno influente diventa improvvisamente presidente dopo che il Campidoglio è stato fatto saltare in aria (con tutti i membri dei poteri statuali al suo interno).

Se guardiamo la storia raccontata da questa serie da un’altra angolazione, possiamo trovare suggestioni su questioni legate al potere, alla democrazia e al ruolo del singolo di fronte alle responsabilità della sua carica.

L’ufficio ovale alla Casa Bianca https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Oval_Office_1981.jpg

Designated Survivor è la storia di un uomo senza ambizioni politiche, che viene improvvisamente proiettato al vertice del governo americano. È la storia di un uomo dai saldi principi morali alle prese con un grande potere. Riuscirà a rimanere sé stesso, rispettando i suoi standard morali? Per utilizzare una formulazione di Margaret Canovan (a sua volta mutuata da un altro studioso), Kirkman si ritrova a fare i conti con la tensione tra il volto redentivo e quello pragmatico della democrazia. Il primo è quella visione che promette la salvezza attraverso la politica, rappresenta la fiducia nella capacità della collettività di apportare miglioramenti alla vita di tutti. La seconda incarna lo scetticismo verso la politica e suggerisce che non vi sia un obiettivo superiore per la politica, ma solo il mantenimento dell’ordine e della convivenza pacifica.

Durante lo sviluppo della serie, il presidente dimostra di credere nel potere redentivo della democrazia: la convinzione che l’azione pubblica possa incidere positivamente sulla vita dei cittadini, l’esternazione di una religione civile che si concreta in una genuina fiducia nelle istituzioni e nelle leggi. Ciò passa prima di tutto dalla sua capacità di rimanere fedele ai suoi valori. Ma con il passare del tempo, la realtà quotidiana del suo incarico strappa il velo dell’idealismo e fa apparire la realtà in tutta la sua forza: non sempre è possibile risolvere i problemi, non sempre le scelte che il presidente ha di fronte sono buone o moralmente onorevoli. Il principio di realtà fa la sua apparizione e Kirkman si rende conto che dentro di sé c’è anche il volto scettico della democrazia. Deve fare i conti con gli intrighi della politica di Washington, il carrierismo dei politici, l’eccessiva influenza dei lobbisti e l’alto grado di disfunzionalità delle istituzioni. E sopratutto, deve fare i conti con la tensione tra il suo desiderio interiore di rettitudine morale e la fallibilità della sua natura umana, la possibilità di corruzione, l’errore di giudizio, che nella sua posizione significa spesso vita o morte per altri cittadini.

Non posso dirvi come finisce (no spoiler!), ma posso dirvi che, anche se nella forma di intrattenimento della serie tv, l’avventura di Tom Kirkman esprime una realtà per le nostre democrazie: l’inevitabile mescolanza tra valori e interessi, tra fiducia e scetticismo nei confronti della politica. Il dissidio interiore di Kirkman è umano e le nostre democrazie presentano la stessa dualità, forse proprio perché sono una costruzione tutta umana.